Max Payne – Retrogame – Recensione

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Max Payne è un videogioco che ha segnato la storia del medium come pochi altri titoli sono stati in grado di fare. Sviluppato da Remedy Entertrainment per PC nel lontano 2001, poi sdoganato su PlayStation 2 l’anno successivo, grazie ad un meticoloso lavoro di porting messo in opera da Rockstar Games, questo shooter in terza persona ha lasciato un’impronta indelebile nel genere TPS grazie ad un gameplay tanto semplice quanto sensazionale e un comparto narrativo eccellente che ancora oggi fatica a trovare degni concorrenti.

La trama di Max Payne affonda le sue radici nel Noir, genere letterario nato negli anni 20/30 del XX secolo che faceva di una narrazione cupa e non convenzionale ed una caratterizzazione decisamente inusuale e peculiare del protagonista i suoi veri punti di forza.
Max soddisfa quindi tutte le caratteristiche dell’antieroe del genere; non è infatti un semplice ex-poliziotto (ora in forze alla DEA) ma bensì un uomo che oramai non ha più niente da perdere, distrutto per l’omicidio di sua moglie e sua figlia da parte di un gruppo di delinquenti sotto l’effetto di una viscida e potentissima droga chiamata Valkirya e incolpato dell’assassinio del suo partner Alex nella desolata fittizia stazione della metro di Roscoe Street.
Un poliziotto dalle cattive maniere, dipendente dagli antidolorifici, disilluso, nichilista, incapace di allentare la presa sul grilletto, costretto a mettere in atto una sanguinolenta vendetta e a trasformarsi nell’incubo più cupo che la polizia e il crimine organizzato di New York abbiamo mai vissuto.

L’incipit della storia è tanto semplice quanto efficace ma a fare davvero la differenza e a garantire un’immedesimazione totale nelle vicende, fu l’inedito e coraggiosissimo sistema di narrazione in stile Graphic Novel scelto dal team Remedy per raccontare le tragiche vicende di Max.
Scordatevi quindi le cutscene (ce ne sono solo una manciata e tutte create con il motore di gioco); qui la narrazione va avanti a suon di tavole, comunque ricreate con uno stile realistico, con tanto di bolle di dialogo e didascalie, recitate però da un cast di voci davvero degne di nota.
Complice anche un doppiaggio in italiano stellare (il buon Max è stato doppiato da un incredibile Giorgio Melazzi) Max Payne ha segnato le vite dei giovani videogiocatori dei primi anni 2000, abituandoli ad un’eccellenza narrativa che è, ancora oggi, spesso difficile da trovare persino al cinema. 
Max Payne è un continuo susseguirsi di frasi ad effetto nichiliste, citazioni, battute in stile hollywoodiano e massime filosofiche al “sapore di piombo” che delineano una storia drammatica e malinconica suddivisa in 3 capitoli principali, a loro volta composti da numerosi sottocapitoli, per una durata totale più che buona.

Giocare a Max Payne significa intraprendere un viaggio, senza alcuna possibilità di ritorno, verso l’inferno, tra quintali di piombo e il freddo pungente di una New York avvolta in una terribile bufera di neve.
Proprio la neve, New York stessa e le decadenti ambientazioni delle sue periferie giocano un ruolo fondamentale nell’economia della storia, configurandosi quasi come una sorta di co-protagonista di Max: elementi sempre presenti e sempre più opprimenti che oltre a rappresentare il set perfetto per le nostre scorribande, incarnano al meglio lo stato d’animo del nostro alter ego e il suo lento inabissarsi in una profonda sofferenza dalla quale non vi è alcuna via di scampo.

A rendere l’opera diretta da Sam Lake (Game Designer, scrittore e volto di Max) un intramontabile capolavoro non vi è solo l’incredibile struttura narrativa ma anche un solido, quanto mai semplice, gameplay. In Max Payne si spara e lo si fa con diverse bocche da fuoco ricreate con incredibile realismo e attenzione ai particolari. 
I nemici giungono sempre in gruppi più o meno numerosi e nonostante la loro IA non sia eccelsa, grazie al loro lavoro di gruppo e all’arsenale a loro disposizione, averne la meglio non sarà quasi mai un gioco da ragazzi.
L’idea attorno alla quale Remedy ha deciso di costruire il gunplay è un perfetto mix di realismo e iperspettacolarizzazione degli scontri.
Mi spiego meglio. Ogni sparatoria sa restituire un feeling dannatamente realistico: le canne delle armi sembrano liberarsi dal pungente gelo al passaggio ripetuto dei proiettili, i corpi reagiscono al piombo con un sistema ragdoll che all’epoca faceva quasi urlare al miracolo, il sangue si spalma sui muri e le ambientazioni reagiscono ai nostri colpi con un sistema che oggi può sembrare arretrato ma che ai tempi sembrava incredibilmente iperrealistico.

A questo realismo Remedy ha pensato bene di aggiungere un “pizzico di fantasia” inventando ciò che è poi passato alla storia come Bullet Time: la capacità di Max di rallentare il tempo per un breve lasso di tempo così da creare un vantaggio tattico sui nemici e poter quindi indirizzare i propri proiettili con maggior precisione, dandoci al contempo anche la possibilità di evitare i colpi avversari.
Il Bullet Time (servirebbe un intero articolo per descrivere minuziosamente questo elemento di gameplay e l’importanza che ha avuto per la storia e l’evoluzione del medium videoludico) ha ovviamente una durata ridotta che non consente di abusarne e si differenzia in due distinte tipologie: il Bullet Time in salto e quello piedi a terra.
Per poter sopravvivere è fondamentale utilizzarli entrambi in base alle situazioni in cui ci si trova. Con il salto è possibile, ad esempio, proiettare Max contro i nemici per concentrare il piombo su bersagli vicini oppure lanciarsi dietro a un ripato per proteggersi dai colpi che sibilano nella nostra direzione senza mai, ovviamente, allentare la presa sul nostro grilletto (o in alcuni casi, sui nostri grilletti poiché si può sparare anche con due armi contemporaneamente). 
La tecnica è indispensabile quando ci si trova in spazi angusti, come ad esempio gli squallidi corridoi dei malfamati hotel di New York. 
Rallentare il tempo tenendo i piedi a terra è invece fondamentale in situazioni in cui è necessario avere una mira precisissima; quindi, ad esempio per affrontare nemici lontani in spazi molto ampi o in caso ci si trovi a corto di munizioni. 

Grazie a queste meccaniche e ad un gunplay a dir poco adrenalinico, giocare a Max Payne è sempre dannatamente appagante ed appassionante. Non ci si limita mai ad eliminare i nemici per giungere alla fine del livello ma ci si esibisce in macabre danze di piombo e morte. Non servono punteggi finali che misurino la nostra prestazione o che ci dicano se siamo stati spettacolari o meno, non esiste alcun ranking o nessun grado da raggiungere. È il giocatore stesso a rendersi conto di aver fatto bene o male e a decidere quindi se riprovare il livello o procedere. La sensazione di appagamento e gioia che si prova nel giocare bene a Max Payne e il continuo desiderio di migliorare le proprie prestazioni per diventare spietate macchine da guerra, è un qualcosa che farete fatica a trovare in qualsivoglia altro titolo del panorama videoludico.

Graficamente parlando Max Payne segnò un vero e proprio punto di non ritorno. L’iperrealismo raggiunto dagli sviluppatori di Remedy splendeva su PC, cedendo ovviamente un po’ il fianco su console. Non era il titolo con la miglior grafica in circolazione nel lontano 2001 (pensiamo ad esempio a Metal Gear Solid 2) ma trasudava un senso di realismo e drammaticità che nessun altro titolo, al netto di impatti grafici decisamente migliori, era in grado di mostrare. 
I fori dei proiettili sui muri, le porte di legno sventrate dalla potenza dirompente dei proiettili, i bossoli che rimbalzano a terra mentre si spara, il suono così nudo e crudo delle armi, la risposta così realistica dei corpi colpiti dai nostri proiettili, il suono dello sgranocchiamento degli antidolorifici (pain killer in originale) e le musiche punk cupe “so 90’s” erano, e sono ancora oggi, solo alcuni degli elementi che garantivano un’immersione senza precedenti.

Altro elemento distintivo di Max Payne, diventato oramai una vera e propria icona nel panorama videoludico, è la splendida colonna sonora, frutto di un ispiratissimo mix di sonorità cupe dal vago sentore distopico e sonorità punk.
Purtroppo la versione per PlayStation 2 soffriva di vistosi cali di frame rate e di qualche problema di sincronizzazione audio; problemi che non fecero raggiungere l’eccellenza al titolo nelle recensioni dell’epoca ma che, a conti fatti, non minavano in alcun modo la giocabilità del gioco.
Un problema che invece affligge entrambe le versioni riguarda il sistema di controllo di Max che risulta essere perfetto nelle sessioni di shooting ma soffre terribilmente nelle sessioni “platform”, come ad esempio quando è necessario camminare su travi o compiere salti da un tetto all’altro e anche e soprattutto nei due livelli dell’incubo in cui è richiesta una grande precisione di movimento.

Un altro problema/non problema è rappresentato da un calcolo delle hit box non sempre preciso: in termini meramente tecnici si tratta effettivamente di un problema ma da un punto di vista di mero gameplay, l’inaccuratezza delle hit box non affligge l’esperienza di gioco, restituendo anzi una sensazione di precarietà e imprecisione che rende ogni sparatoria eccitante e potenzialmente sempre pericolosa. In Max Payne, in fin dei conti, non si spara cercando il colpo di precisione o l’headshot ma bensì cercando di scaricare quanto più piombo possibile sui corpi dei nemici.
Ovviamente, nonostante si tratti di un capolavoro senza se e senza ma, come ogni gioco di quel periodo, anche Max Payne risente dell’inevitabile passaggio del tempo e giocato oggi, da parte di un gamer abituato al dinamismo e alla precisione dei controlli dei giochi moderni, può sembrare ostico o imperfetto. Il tempo ha quindi invecchiato il “corpo” di Max ma non la sua “anima”.

Max Payne è un’avventura profonda e densa di temi importanti che diverte, fa pensare ed è capace di far provare al giocatore al contempo gioia e adrenalina ma anche pessimismo e nichilismo.
Un’opera perfetta sia sul versante del gameplay che su quello narrativo che ha dato il via ad una saga epica con il poco conosciuto porting per Game Boy Advanced, un secondo capitolo (Max Payne 2: The Fall of Max Payne) foriero di grandi innovazioni sul versante gameplay ma “appesantito” da una trama notevole  che aveva però inevitabilmente perso un po’ del suo smalto e un terzo incredibile capitolo per PS3 (Max Payne 3), sviluppato da Rockstar Studios e considerabile ancora oggi uno tra i migliori Third Person Shooter mai creati dall’essere umano.

Un gioco, o meglio un’esperienza, che consigliamo di giocare e rigiocare a tutti; un sempre verde da tenere nelle posizioni che contano delle nostre collezioni, sopratutto ora che lo si può trovare ad un prezzo accessibilissimo anche sul PlayStation Store.
Non possiamo concludere questa retro-recensione senza proporvi una “video-lezione”, tenuta da sua eccellenza Sam Lake, su come ottenere una perfetta espressione alla Max Payne.

Pro
  • – Gunplay appagante che ha segnato la storia degli sparatutto in terza persona
  • – Narrazione di livello cinematografico e dallo stile inconfondibile
  • – Atmosfere, storia e musiche semplicemente perfette
  • – Max è l’antieroe per eccellenza
  • – Doppiaggio in italiano stellare
  • – Durata piuttosto buona per un TPS…
Contro
  • – … ma prima o poi finisce.
  • – Qualche problemino di gestione del personaggio nelle fasi platform
  • – Hit box non proprio precisissime
  • – Qualche calo di frame rate nelle situazioni concitate
  • – Esiste una versione per Smartphone che vi consigliamo di evitare.

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