Gli ultimi anni sono stati piuttosto movimentati su tutti i fronti, specie quello dei videogiochi. Molti generi e sottogeneri, idee e maniere innovative di giocare hanno allietato giornate, pomeriggi e serate di grandi e piccini, dimostrando come, ancora una volta, ci sia davvero qualcosa per tutti. Nonostante questo, però, ritengo personalmente che ci sia un genere di cui non si parla alla stessa maniera degli altri. Mi riferisco al vastissimo genere degli Open World, evoluzione quasi naturale di quel che fu il Free Roaming che in passato, chi più chi meno, abbiamo potuto apprezzare già durante l’epoca Playstation One/Nintendo 64.
Cosa rende unico qualcosa di già visto?

Tra un Body Harvest e un acerbo ma promettente Grand Theft Auto, DMA Design (poi in futuro affermatasi come Rockstar North) piazzava le basi per un genere tutto nuovo, che fu ulteriormente ampliato negli anni a venire grazie a titoli di vario calibro da ogni parte del mondo, con un twist sempre diverso della medesima formula. Se già successivamente, nell’epoca PS2, potevamo godere di un Jak & Daxter, un GTA III e uno Spiderman 2 (giochi che interpretavano la formula del free roaming in maniere completamente diverse), ad oggi, grazie specialmente agli enormi passi avanti in ambito hardware, possiamo perderci in veri e propri mondi aperti, in grado di respirare e vivere in modi nuovi, senza mai interrompere l’azione con un caricamento.
Un altro po’ di storia

A nuove idee corrispondono nuovi twist della formula, e perfino Ubisoft, che fino ad allora era un po’ titubante in materia, decise di provarci con un discusso quanto acclamato titolo chiamato “Assassin’s Creed”, altra evoluzione quasi scontata della pluripremiata serie (perlomeno nel 2006) di Prince of Persia. Ad oggi, purtroppo, la saga di Prince of Persia è un po’ in vacanza, seppur ci sia qualche vago tentativo di riportarla in auge con remake e affini, ma è chiaro che il fenomeno Assassin’s Creed sia stato rappresentativo di una formula che funzionava senza necessitare chissà quale sforzo. Effettivamente, quanto sarebbe bello impersonare un assassino durante gli anni delle terze Crociate? E’ una domanda più che legittima che sicuramente si saranno posti gli sviluppatori in quel di Ubisoft. Ma dietro a quest’idea mastodontica si cela un’altra domanda. Con cosa riempiamo il mondo di gioco? Negli anni Ubisoft ha decisamente imparato a gestire meglio i suoi collezionabili e le missioni secondarie per allietare il viaggio dei completisti verso il 100%, anche se trovo che la versione migliore del mondo di Assassin’s Creed, perlomeno come varietà di elementi secondari, risieda proprio nel secondo capitolo della saga di Ezio Auditore, Assassin’s Creed Brotherhood.

Un sistema economico recuperato pari pari da Assassin’s Creed II, il precedente capitolo della storia, contorna una serie di missioni secondarie e collezionabili di tutto rispetto, che da quel titolo in poi sarebbero quasi diventati tassativi per ogni capitolo della serie. Tra scrigni da depredare, missioni di assassinio da recuperare e prove di addestramento, per non parlare poi di tutta la meccanica di ristrutturazione dei locali, ogni tipo di giocatore interessato al titolo può trovare qualcosa di interessante da fare, sia nel caso del giocatore curioso, interessato a finire la storia e passare a qualcos’altro, sia il completista, che mira al 100% o al “platino”.
Alla formula di Assassin’s Creed se ne sono aggiunte molte altre, negli anni, anche se personalmente trovo che, dal 2013 in poi, quasi tutti i giochi di questo genere abbiano preso la brutta piega di essere in realtà nient’altro che giochi narrativi travestiti da Open World, con il preciso scopo di offrire al giocatore interessato al completismo una serie di piccoli contentini sotto forma di check list per non farlo demordere e arrendere prima del tempo medio di gioco ponderato dai developer. La cometa di Zelda: Breath of the Wild ha sicuramente fatto piacere a molti, noi compresi, e forse è proprio perché Zelda segue una formula leggermente diversa, ma rivisitata, che quel titolo funziona così dannatamente bene, anche dopo cinque anni dall’uscita, come se fosse il primo giorno.
Vecchi generi in nuove salse

Ma se provassimo a scavare nel genere nudo e crudo dell’Open World, senza twist ruolistici o chissà che altro… Cosa resterebbe? Pochi giochi, ma davvero buoni. Un paio di questi sono, senza ombra di dubbio, gli Spiderman di Insomniac Games.
E’ difficile descrivere in maniera concisa cosa rende questi due titoli davvero speciali. Basti pensare, però, che il motivo per cui sto scrivendo queste righe è proprio dovuto all’amore incondizionato per il genere che questi due titoli mi hanno trasmesso quando li ho giocati e completati durante il Natale 2020. Marvel’s Spiderman non è solo una lettera di amore e amicizia aperta a tutti i fan dell’Uomo Ragno, anzi. Approfondisce meccanicamente delle caratteristiche ormai scontate nel genere che proprio Assassin’s Creed ha reso un trend (come, ad esempio, le famose “Torri Ubisoft” che offrono una visuale più chiara del mondo circostante), e le ha semplificate meccanicamente grazie a un sistema di esplorazione quasi del tutto irripetibile, che impara dall’ormai lontano Spiderman 2 e rubacchia idee qua e là, rendendo i giri dentro New York una vera e propria gioia per gli occhi. La caratteristica di Marvel’s Spiderman e, di conseguenza Miles Morales, è che non ci sono veri e propri collezionabili (specie se non contiamo le foto) ma vere e proprie missioni secondarie con obiettivi specifici divisi in un sistema di medaglie. Le medaglie, però, non sono solo di abbellimento, perché insieme alla missione completata arriva un supplemento di token spendibili nelle più disparate abilità e gadget secondari di Spiderman, che ampliano esponenzialmente il suo arsenale, le sue mosse di combattimento e la creatività (oltre che velocità) dei suoi swing quando gironzola per i quartieri di New York. Un semplice progetto per armi più potenti in Assassin’s Creed viene corrisposto da Spiderman con un modo per mantenere il personaggio fedele a sé stesso all’inizio del gioco, almeno a prima vista, finché non si spicca il volo. E nonostante tutto, entrambe le formule funzionano dannatamente bene a modo proprio.

Questo è proprio il caso giusto per dirlo: gli Open World hanno più in comune con Platform e Collectathon 3D di quanto si potesse immaginare. Il bello è che per raggiungere lo stesso obiettivo si prende in considerazione un mezzo diverso. Se in un A Hat in Time ci sono minigiochi e collezionabili sparsi per ottenere uno specifico strumento, in Assassin’s Creed c’è quasi esattamente la stessa cosa, ma in scala molto più grande e con obiettivi più a lungo termine, che non si fermano solamente all’esplosione di dopamina offerta dal numeretto di collezionabili che sale, ma permettono al giocatore di esprimersi in maniere completamente personali. Casi come quello di Assassin’s Creed Unity, che offrono una gamma di armature di tutto rispetto, specie per gli anni di uscita del gioco, fanno capire che la svolta verso un design più ruolistico è quasi obbligata, a un certo punto. Questo però non toglie, per fortuna, qualità ai numerosissimi collezionabili sparsi nelle mappe.
A ognuno il suo!

Detto questo, è chiaro come il sole che, anche nel caso della serie più accessibile ed economica di questi anni, ognuno possa esprimersi come meglio gradisce, e il gioco si adatterà in maniera più o meno giusta a ogni tipo di giocatore. Anche e soprattutto i fan dei platform e dei collectathon potranno seriamente trovare un ripiego nelle checkbox di Assassin’s Creed, specie andando avanti nei capitoli, mentre il fan del Tripla A più recente e moderno avrà modo di vivere un’esperienza non del tutto originale, ma divertente abbastanza da rendere piacevoli numerosi pomeriggi in attesa della prossima uscita. È questo ciò che fa una serie con l’accessibilità nella mente: adattarsi, spesso a scapito di essere fedele a sé stessa. E’ una lama a doppio taglio, su questo non c’è dubbio, ma è proprio nella varietà, seppur lieve, tra un gioco e un altro, che risiedono i gusti e le preferenze di ciascuno, sia per quello che riguarda l’oggetto da collezionare che, più in larga scala, il titolo da preferire.
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