All you need is un po’ di amore antiproiettile
Serie del 2016 ideata da Cheo Odari Coker e basata sul personaggio creato da Archie Goodwin, John Romita Sr e George Tuska, Luke Cage è la terza serie Netflix a tema Marvel e, come le precedenti, si inserisce all’interno del grande affresco dell’universo cinematografico dei supereroi della casa delle idee.
Il personaggio di Luke Cage aveva fatto infatti la sua prima apparizione nella serie di Jessica Jones. Come tutte le serie create e distribuite da Netflix, tutti gli episodi sono stati rilasciati nello stesso giorno.

Luke Cage (Mike Colter) è un superumano con grandissima forza fisica e pelle indistruttibile che cerca lavoro e rifugio dal suo passato misterioso ad Harlem. Suo malgrado, il nostro si trova a stretto contatto con un boss locale, Cornell “Cottonmouth” Stokes (Mahershala Ali), che controlla il traffico d’armi di Harlem dal suo locale notturno, l’Harlem’s Paradise. Cornell ha però le spalle coperte, perchè sua cugina Maraiah Dillard (Alfre Woodward), riesce a coprirlo grazie al suo ruolo politico di consigliera cittadina. In tutto questo, il trafficante d’armi Diamondback (Erik LaRay Harvey), decide di dare un occhio in più alle operazioni di Cornell, e gli affianca il suo uomo migliore, Hernan “Shades” Alvarez (Theo Rossi). Sulle tracce di Cottonmouth c’è però anche la polizia, più precisamente la detective Mercedes “Misty” Knight (Simone Missick). Quando la guerra fra bande di Harlem inizia però ad alzare la temperatura, Luke Cage decide che non è più tempo di scappare, e assieme alla vecchia conoscenza Claire Temple (Rosario Dawson), il nostro deciderà di usare i suoi poteri per una causa più grande, e perchè no, anche trovare delle risposte su se stesso.

A livello di doppiaggio, la serie è stata diretta da Monica Ward per Dubbing Brothers Inc. Come mio solito, ho visto solo tre episodi su dieci in Italiano, e devo dire che, oggettivamente lo studio si è trovato una bella gatta da pelare. La parlata di Harlem stretta fatta di slang e di citazioni, è estremamente difficile da adattare senza scadere in un “Uhè, bella lì zio”, che lascerebbe francamente il tempo che trova. Quindi, mi va bene un adattamento meno “da strada”. Certo, si perde qualcosa (i nomi di alcuni cattivi sono nomi di razze di serpenti, che nel doppiaggio nostrano non si può notare), ma ci può stare. Quello che non mi va bene, è che su tutti i “Sweet Christmas” – tipica esclamazione di Luke – che vengono pronunciati, solo una sia stata tradotta come “Santissimo Natale”. E questo mi urta, perchè se lo puoi fare una volta, lo potevi fare tutte.
I personaggi in Luke Cage sono tanti, ma nessuno è di troppo. Anche il comprimario più scemo è ben caratterizzato, e non si sente mai di aver a che fare con una folla di gente (anche se così è), perchè sono proprio gli abitanti di Harlem, e Harlem stessa a far parte di questa grande storia. Theo Rossi è ufficialmente il secondo miglior cattivo Marvel di sempre, tanto che spesso e volentieri mi son trovato a tifare per lui: una caratterizzazione perfetta del criminale astuto, che non morde mai più di quanto possa masticare. Mike Colter si cala benissimo del personaggio, continuando il trend che aveva già preso in Jessica Jones. I combattimenti sono molto in scala, meno coreografati che in Jessica Jones e Daredevil, ma è giusto così. Luke Cage è come il nostro Bud Spencer: arriva, la gente prova a fermarlo, lui si arrabbia e li stende con un cazzotto. E va più che bene così.
Vengono citati un sacco di scrittori che hanno influenzato la blaxpoitation, fra cui Chester Himes, l’inventore del “Dolce Natale”.
La musica. Caspita la musica. Ancora più che in Guardiani della Galassia, la colonna sonora di Luke Cage si sposa perfettamente con tutta la trama, e anzi, diventa vero e proprio strumento narrativo. Mettiamoci anche che spesso e volentieri ci sono cantanti veri che fanno comparsate (anche Method Man.), e vi giuro, è un’esperienza davvero concentrata, ed estremamente godibile. Ho trovato pazzesco il modo in cui si sia riusciti a dare vita ad una comunità afroamericana, senza cadere in troppi stereotipi. Perchè, come insegna il grande Fred Stoller, a volte gli attori di colore vengono istruiti per essere… “più di colore”. Detto ciò, una bellissima rappresentazione di Harlem a 360 gradi, in uno show che inquadra anche molto bene il disagio sociale che colpisce la popolazione afroamericana, compresa l’inquietante frase “Per la polizia, sarei sempre prima un nero, e dopo un tizio antiproiettile”.

Se invece dobbiamo parlare dei negativi…beh se hai un cast in gamba, dove gli anelli più deboli sono la Missick (che è comunque ad una sua prima grande prova) e Harvey (che sembra Samuel L. Jackson nella scena di Pulp Fiction che l’ha reso famoso), ma per tutta la serie non mi riesci a vendere i dialoghi… allora vuol dire che il problema sono questi ultimi. Non si riesce a prendere sul serio una scena che duri più di sei minuti, perchè il materiale con cui gli attori devono lavorare, non è di certo pazzesco. Pensate a tutte quelle volte dove sentite una certa frase in una serie, e saprete già in che modo gli attori risponderanno. Ecco,in Luke Cage questo succede spesso e volentieri. L’altro grande problema che ha la serie, è che ha un ritmo completamente casuale. Un attimo prima siamo una serie realistica, dove davvero nessuno può fermare Luke, e un secondo dopo siamo nel cartoonesco, con costumi che vengono sì presi in giro, ma poi ripresi paro paro dai fumetti. E questo non è un bene, perchè la fusione fra “reale” e “superreale” può esserci, ma non deve apparire come una divisione netta fra le due anime dello show. Questo steso problema si ripresenta poi anche nella struttura della serie. Spesso ho notato che le serie Netflix sembrano allungate, e che basterebbero meno episodi per raccontarci una storia bellissima. Ecco, Luke Cage me l’ha dimostrato, finendo in modo molto bello all’episodio sei. Certo, poi la trama va avanti, e si evolve, con alcuni colpi di scena interessanti e altri da seconda elementare, ma se davvero un episodio mi dà così tanto l’idea di conclusione, la metà successiva sembra più un contentino che un finale vero. Inoltre torna di nuovo la maledetta telecamera che vibra senza motivo, ma non nelle scene d’azione, bensì in quelle di dialogo.
A livello puramente tecnico, Luke Cage è la serie di Netflix meno convincente. I set sono abbastanza banali, e così gli effetti speciali, ma soprattutto per via della sua mancanza di ritmo. Daredevil sembrava un film di tredici ore, Jessica Jones sembrava un telefilm. Luke Cage non sembra nessuno dei due, con episodi che finiscono promettendo una risoluzione che avviene in sei secondi, e altri che finiscono e basta. Ci sono molti, moltissimi elementi che fanno di Luke un telefilm, ma sono sparsi e raffazzonati.
E poi mi metti la musica ed Harlem come personaggi e allora il tutto prende nuova vita, il tutto apre una finestra su una realtà molto meno edulcorata di quella di mille altre show simili. Fatto questo mi dimostri questa divisione sempre più netta fra quello che vorresti raccontare e il fatto che devi mandare avanti una storia di supereroi e, mentre provi a risolvere tutti i conflitti, me ne crei di nuovi che verranno poi risolti con una semplicità disarmante e soprattutto davanti ad una trama non proprio solidissima.

E poi ci sono personaggi dei quali ti importa davvero, fino in fondo. Personaggi che osano far vedere la loro umanità. Ma un umanità vera, con una Maraiah razzista, un Cottonmouth pianista e una Misty giocatrice di Basket. Qui l’unione delle anima funziona davvero. Questo è un fumetto Marvel, un mondo dove gli eroi sono fuori dalla tua finestra, e sono persone come te. Dove i cattivi sono cattivi, ma con una cattiveria astuta ed equilibrata, ma anche banale e psicotica. Del tutto convincente? No. Purtroppo no. Ma, rispetto al vuoto che si creava davanti alle serie precedenti, dove i comprimari erano quello, comprimari, Luke Cage è una serie con un sacco di co-protagonisti. E questo è davvero, davvero bello.
Dicevamo che a livello tecnico, Luke Cage è la serie che meno ci ha convinto. A livello di cuore però, è quella che risulta migliore. Questo suona molto come un ossimoro, ma proprio l’ossimoro è un po’ il letimotif della serie. Abbiamo una storia molto scarsa, di cui però vogliamo vedere gli sviluppi perchè ci siamo affezionati ai personaggi. Dopo l’episodio pilota, il peggiore di tutti, ero molto scettico. Ma poi, Harlem e Luke mi hanno conquistato, e devo dire che, pur con molti difetti, Luke Cage riesce a reggersi come una visione piacevole. Molto lontana dalla perfezione, ma piacevole.
Nota di colore: Alfre Woodward era la mamma triste in Captain America Civil War E se il giocatore di scacchi Bobby Fish è un omaggio al nemico di Luke Mister Fish, l’unico ad averlo mai sconfitto, vi giuro che urlo.
- – Harlem e i suoi personaggi
- – Musiche perfette e ben integrate
- – Show poco omogeneo
- – Dialoghi prevedibili

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