Una pietra miliare, finalmente sul nostro sito!
L’anno è il 1982, e la Marvel aveva appena lanciato sul mercato una nuova serie di albi, pubblicati in grande formato, chiamati “Marvel’s Graphic Novel”. Dopo alcune hit come “La morte di Capitan Marvel”, ed il lancio di una nuova serie chiamata “I Nuovi Mutanti”, il quinto numero di questa nuova serie sarà dedicato agli allegri mutanti chiamati X-men, che nel 1982 dominavano il mercato a fumetti statunitense.
Ai testi sarà ovviamente reclutato Chris Claremont, padre putativo degli uomini X e architetto delle loro storie per decenni, mentre dal lato grafico ci si appoggerà ad una giovane promessa di nome Brent Anderson.
Leggenda vuole che il progetto dovesse essere illustrato dall’artista Neal Adams, su un soggetto dell’allora editor in chief della Marvel (il gigante Jim Shooter) ma beghe contrattuali porteranno poi ad una riscrittura della storia, per arrivare alla versione che conosciamo.
In questa storia il reverendo William Stryker, grande oratore ed ex militare, ha creato una vera e propria crociata contro i mutanti che odia sopra ogni cosa, vedendoli come abomini agli occhi del Signore. Stryker arriverà anche a rapire Charles Xavier, patron del gruppo mutante paramilitare noto come X-men, portando il team ad allearsi nientemeno che col loro nemico giurato, il potente terrorista mutante Magneto.

Nota di colore: abbiamo già scritto di come la genesi di quest’opera sia stata abbastanza ballerina, ma aggiungiamo anche che la sua presenza più o meno in continuity, sarà dibattuta per anni, almeno fino a quando nel 2003 uscirà il secondo film sugli X-men, chiamato X2, che prende molto da questa avventura.
Partendo dal lato grafico, come è nostro costume, partiamo subito dicendo che Anderson è uno dei disegnatori più particolari della storia dei comics. Non perchè sia più bravo di altri, ma perchè il suo tratto, ispirato peraltro proprio a quello del sovracitato Neal Adams, è molto più realistico e a tratti abbozzato rispetto a quello di un tipico disegnatore di supereroi.
Certo, non si parla di fotorealismo assoluto, ma quando Anderson disegna Nightcrawler, il membro degli X-men che sembra un elfo blu, disegna davvero qualcosa di particolare, qualcosa che spicca tra folla, non solo perchè il nostro è un cartone animato, ma perchè davvero diverso e a tratti inquietante. Per non parlare poi del range di volti e di emozioni del nostro. Fra le cose più difficili da disegnare (in media), ci sono le mani, i piedi e le facce. I primi perchè particolarmente mobili, ma i volti… i volti spesso e volentieri sono una sequela delle stesse tre facce incollate su corpi diversi, nella speranza di farla franca.
Ecco, Brent Anderson questo gioco non lo fa, e ogni volto, ogni espressione di dolore, di sorpresa, sono vero dolore, vera sorpresa.

E, sebbene il lavoro di Anderson sia davvero a livelli più che alti, il merito del successo va obbligatoriamente anche a Steve Oliff. Chi è Steve Oliff? Beh, il tizio che ha deciso di colorare questa graphic novel con tinte ad acquerello sfumate. E ora alcuni di voi diranno “Beh, che cosa cambia?” e la risposta è TUTTO.
Già dalle prima pagine, al buio, dove due ragazzini mutanti sono inseguiti da una folla, i colori di Oliff ci trasmettono già l’emotività necessaria. Ci raccontano loro la storia, non i disegni, non le parole. I colori. Uno dei fumetti con la colorazione più bella di sempre, con delle tinte che restano sempre cupe, ma che hanno dei guizzi di potenza nei momenti più cruciali, seguendo la narrazione ed il filone reale della vicenda, ma ricordandosi che, ogni tanto, l’ottimismo c’è, e che i buoni possono vincere. Steve, non ha il suo nome in copertina e io urlo; urlo perchè è impossibile che ci si dimentichi che in un fumetto c’è molto di più, oltre a parole e disegni.
Per quanto riguarda la storia, beh, che dire. Ci sono scrittori, che sono come il buon vino. Anche a distanza di anni, li rileggi, e non puoi ricordarti esattamente il sapore della prima sorsata della loro prosa, così forte, così inebriante, così iconico. Chris Claremont, è un vino… ma da tavola. Intendiamoci subito: la sfida di Claremont di raccontare una storia di supereroi, con pochissima azione, pochissimi superpoteri ed un sacco di dialoghi è vinta. Dialoghi su dialoghi, cercando di essere più reale possibile e al contempo catturare il lettore. Dio ama l’uomo uccide è, alla fine della fiera, un segnale di stile bello e buono, una prova che negli anni 80 pochissimi hanno superato. Purtroppo però quello che colpiva negli anni 80 (e colpì anche me che lo lessi nel 2003), non colpisce più come all’epoca e, alla prova del tempo, oggi Claremont non sembra più un mago del dialogo, ma sembra “solo” uno scrittore verboso.
Notate le virgolette, perchè ovviamente ho usato un’iperbole: la verbosità di Claremont si sposa bene con il tipo di storia che deve raccontare, ma in alcuni casi, dovendo lavorare sul simbolismo della vicenda, lo scrittore mette troppo il piede sull’acceleratore e prende scivoloni non indifferenti. Ci sono alcune scene con un personaggio afroamericano che sono davvero esagerate, con una retorica così esplicità che in alcune tavole tutto il dialogo potrebbe limitarsi ad essere “Yo, il razzismo è brutto”. Cosa su cui sono anche d’accordo, e sono anche d’accordo nel non nascondere il messaggio, ma in alcuni casi questo diventa davvero una sovraesposizione che ti porta fuori dalla storia.

Dio ama, l’uomo uccide è da molti considerato un capolavoro del genere ed una delle molte opere seminali che hanno aperto il fumetto ad un’età adulta, superata l’adolescenza anni 70 dove i personaggi facevano finalmente il salto da “protagonisti di Soap Operas” a “attori di produzioni di un certo livello”. Parliamo di un fumetto che è incastonato nel cuore e nelle menti di chiunque lo abbia letto appena uscito (o poco dopo), e che, come molti fumetti “capolavoro”, è stato così venduto alle generazioni successive. Peccato che se il mondo passa anni a venderti questo o quel prodotto come clamoroso, e poi quando ne usufruisci e la tua esperienza è solamente divertente, la delusione aumenta. Ma è vero che questa graphic novel è stata, è e sarà, un vero e proprio cambio di direzione. Non solo per l’idea che il fumetto di supereroi può essere (a tratti) anche qualcosa di più sofisticato, ma rappresenta, assieme a molte altre opere, anche una cementificazione dei questi personaggi nell’olimpo della cultura popolare.
Avrei sprecato tutti i soldi che ho speso per laurearmi in pedagogia, se non vedessi anche l’importanza educativa di un albo a fumetti del genere, che certo, non è perfetto, in alcuni momenti è quasi ipocrita (gli X-men ad esempio si espongono come paragone della diversità, e poi sono al 99% bianchi), ma resta comunque una lezione morale che poteva essere raccontata sia ai bambini che tenevano i fumetti arrotolati nella tasca dietro i pantaloni, sia agli adolescenti che iniziavano a formare il loro carattere, ma anche agli adulti che ancora leggono i fumetti. Quelli li odio proprio, specie se poi ne parlano anche su internet…
Un fumetto che, più che essere un segnale di stile, più che essere un tripudio del disegno e del colore, ed una sfida del genere, è un fumetto che rispetta chi lo legge. Tutti i fumetti Marvel, in una misura o nell’altra, ci avevano provato e ci erano riusciti. Ma quelli che ci sono riusciti con questa potenza, si contano sulle dita di due mani.
- – Disegni con uno stile molto personale ed unico
- – Storia che esce dai canoni dei supereroi
- – Messaggio pedagogico molto interessante
- – Dialoghi molto verbosi
- – A volte il messaggio diventa troppo pedante
